Per soddisfare la richiesta dei praticanti la caccia da appostamento, le amministrazioni provinciali organizzano e gestiscono (su delega della Regione) l’attività di cattura con le reti attraverso strutture chiamate “roccoli”. In queste del personale pagato con denaro pubblico, trascorre oltre tre mesi per catturare diverse migliaia di esemplari appartenenti a specie come il tordo, la cesena, l’allodola. Tutti destinati ad essere ceduti ai cacciatori che ne fanno richiesta.
Una percentuale alta di questi uccelli muore entro pochi giorni in conseguenza dello stress e delle ferite procurate con la cattura. Tutti, salvo qualche fortunato che riesce a liberarsi dalle mani dell’uccellatore, sono destinati a morire da prigionieri alati, dopo una vita in schiavitù, utilizzati dai cacciatori come richiami vivi adatti ad attirare i propri simili alla distanza di tiro dei fucili da caccia.
Questo dopo essere stati sottoposti alla pratica crudele della muta (modificare i bioritmi per far cantare gli uccelli in autunno anzi che in primavera).
Per spiegare quale sia la terribile odissea sofferta da questi animali selvatici costretti in piccole gabbiette proprio nel momento in cui è più forte l’istinto del volo migratorio, un attivista del Coordinamento Protezionista Veneto ha cercato di tradurre con parole umane le vicende di uno di questi sfortunati prigionieri alati. Detenuti condannati ai lavori forzati con l’unica colpa di essere appetiti ai cacciatori.
Ecco come racconterebbe a noi umani la sua storia.
Sono un piccolo uccello migratore e il mio mondo, prima che mi accadesse quello che sto per raccontare, era il bosco, il cielo stellato, le stagioni che si susseguono, la ricerca del partner, i lunghi voli ininterrotti per allevare i propri piccoli, la migrazione verso i paesi caldi del sud.
Oggi il mio mondo è tutto qui, dentro questa gabbia lunga solo pochi centimetri.
Tutto ebbe inizio un mattino di ottobre, ero già in volo da diverso tempo, stavo migrando ed ero stanco e affamato... quando d’un tratto un canto melodioso attirò la mia attenzione: mi invitava in un luogo pieno di cibo. Cercando di avvicinarmi a quel banchetto mi ritrovai impigliato in una rete invisibile.
Finiva così la mia vita di uccello libero. Iniziava la mia nuova vita: ero divenuto un “richiamo vivo” al servizio del cacciatore. Comincia da lì il triste viaggio. Qualcuno mi libera dalla rete... lo credo un salvatore... ma mi sbaglio. Subito mi ritrovo con un anello alla zampa e infilato a forza in una scatola di legno in cui non posso assolutamente muovermi.
In questa cassa viaggio per molti chilometri. Sono terrorizzato, vorrei saltare, scappare volando via in alto... ma ogni volta sbatto contro questo cielo di legno. Dove mi stanno portando? Perché mi trattengono qui? Io ho fretta, devo partire, volare verso i paesi caldi per sfuggire ai geli invernali. Non posso aspettare!
Poi, d’un tratto, la luce di una stanza piena di umani che mi spaventano con le loro voci e i rumori. Uno di questi mi prende bruscamente in mano, non è per liberarmi ma per mettermi in una gabbietta.
Tento ancora di scappare, devo scappare!! E allora salto e sbatto, salto e sbatto per ore e ore, non faccio che procurarmi ferite, sono esausto ed ho dolori in tutti i muscoli del corpo. Intorno altri uccelli sfortunati come me, tutti dentro un’identica gabbia. Ma sono diversi da quando li incontravo nel bosco. Come sono brutti: senza coda, senza penne in molte parti del corpo, alcuni senza dita... ma cosa gli è successo?
Passo un giorno in questa gabbia stretta, sognando il bosco e il cielo limpido, non mangio quello che l’uomo mi ha messo davanti, non è il mio cibo.
Quando sento arrivare un nuovo giorno ecco che l’uomo mi porta all’esterno, ci sono delle piante ma non mi libera.
Cosa succede? Intorno a me, appesi nelle loro gabbiette sugli alberi vicino, degli uccelli cantano a squarciagola come se fosse primavera. Ora capisco: questa sarà la mia nuova “vita”, il mio lavoro al servizio del cacciatore. Devo cantare ed attirare sui rami vicini fratelli della mia stessa specie, poi il mio padrone cacciatore, nascosto dentro un capanno mimetizzato, gli sparerà per ucciderli quasi tutti.
Ora sono un uccello da richiamo, rassegnato a guardare il bosco attraverso queste sbarre. Abituato a forza ad alimentarmi con il mangime artificiale. Mi sono abituato anche agli spari, mi sono dimenticato anche cosa sia la libertà.
Poi, da un giorno all’altro, nemmeno l’aria del bosco da respirare. D’un tratto costretto anche a non vedere, sentire, vivere il bosco per molti mesi di fila. Un’esistenza grigia e noiosa fino al giorno in cui il mio padrone, proprio quando l’estate che avanza fa sentire ancor più la nostalgia del bosco e del volo libero, mi prende fra le mani. Non per liberarmi ma per strapparmi delle penne e delle piume dal corpo. Fatto questo, sono messo con gli altri dentro uno sgabuzzino, al buio dove il tempo sembra non passare più. E lì rimarrò insieme agli altri fino a quando non arriverà il tempo della caccia.
Quando arriva l’autunno incomincia il mio lavoro forzato: cantare come se nel bosco ci fosse la primavera come se fosse giunto il momento di cercare una compagna per continuare il cerchio della vita.
Ormai è lontano il ricordo di quell’ottobre in cui ancora ero libero di volare, per migrare, per vivere libero. Ormai sono abituato a questa prigione. Sono vivo, anche ingrassato, ma ho dimenticato come si fa a volare, sento i muscoli atrofizzati, non li uso da così tanto tempo.
Ormai non riesco più a distinguere la primavera, canto solo quando comincia a far freddo e le giornate si accorciano... come ho potuto dimenticare la primavera?
Ormai sono vecchio e stanco. Il mio piumaggio è smunto e rado. Alcune parti del corpo sono completamente nude e il freddo è sempre più insopportabile. Il presente è fatto solo di sensazioni dolorose e intorno a me vedo compagni che vengono uccisi o che si ammalano e muoiono. Come quel tordo sassello che arrivò nella sua gabbia così agitato che, per disperazione, morì senza mangiare dopo pochi giorni. O quella cesena, dopo alcuni mesi di questa vita le sue zampe si ingrossarono, le dita si atrofizzarono, perse l’uso di un arto... ma tanto a cosa gli servivano se aveva appena lo spazio per girarsi. O come quel merlo che a forza di sbattere perse anche l’uso di un occhio.
Quanti uccelli erano arrivati nello sgabuzzino del cacciatore alteri, belli, puliti e colorati. Poi, giorno dopo giorno, il loro aspetto mutò da renderli irriconoscibili: la coda spezzata o scomparsa, le zampe piene di piaghe e croste, le ferite sempre aperte sulla testa e ai lati del becco. E più di tutti ricordo quell’allodola. Era piccola e fragile, arrivò tremante in preda al panico continuo. Aveva saltellato come una pazza sbattendo contro il soffitto della gabbia. Il suo capo era pieno di ferite sanguinanti. È riuscita a sopravvivere fino ad ora come me, ma non sa più cos’è il volo lei che era abituata a salutare il sole della primavera che arriva cantando alta nel cielo azzurro.
Anch’io non sono più come i miei compagni che vivono in libertà. Non ho più la coda, mi mancano le dita della zampa destra, ho la testa quasi nuda. Eppure ho il cibo assicurato tutti i giorni, non devo fare fatica, non conosco più la fame, non devo temere più i predatori e i pericoli del bosco, la vita in gabbia è tranquilla... ma non è la mia vita.
Non spero nemmeno più nella libertà: anche se il mio padrone mi liberasse, non saprei che farmene della libertà: un tempo era la linfa che mi teneva in vita.
Ma ora non so più cercare il cibo, non so più volare, non so più quando è primavera: la natura stessa non mi riconosce, non mi accetterebbe più.
Per me non c’è più speranza, ormai aspetto solo la fine, con rassegnazione.
Ma non preoccupatevi per il mio destino, voi che leggete. Pensate invece ai miei consimili, a quelli che sono ancora liberi e che, con l’inganno, saranno catturati a migliaia e imprigionati per sempre.
Voi potete cambiare questo destino, modificando le leggi che permettono queste sofferenze inutili. Non permettete più che accada tutto ciò: vietate l’uso di richiami vivi nella caccia!
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